martedì 19 novembre 2024

IL THUMOS NON SOLO DI ACHILLE

 

Thumos è la parola di gran lunga più usata nell’Iliade di Omero… “cantami o diva….” eh si! siamo nell’accezione dell’ira più famosa di tutti i tempi, quella del  Pelide Achille, che nell’Iliade, equiparata appunto ad un thumos,  sta a rappresentare sempre un qualcosa di dipendente da modalità reattive a  fattori esterni, che ingenerano un crescendo, una proliferazione, una massa incontrollata di sensazioni, che hanno quindi una manifestazione corporea localizzata in questo o quell’organo: il fiato corto , l’accellerarsi del battito del cuore, un aumento della pressione sanguigna;  quindi più che altro uno stato fisico indotto da una emozione che ha una causa  dall’esterno, ma è gestita internamente di noi stessi.
Il Thumos in una lingua che possiamo decifrare e capire, senza ricorrere a interpretazioni più o meno fantasiose, tipo quelle di cui  archeologi e interpreti si sono sempre serviti  in merito a geroglifici e testi molto antichi  proiettandovi  la loro soggettività, non tenendo nel debito conto la distorsione del significato/significante del testo, è appunto questo, una parola che diciamoci la verità oggi un po’ genericamente è andata a comporre la minacciosissima, terrificante parola tumore che è una sorta di summa di paura e spauracchio in ambito di malattie, che ha numerose altre diciture, cancro, carcinoma, adecarcinoma, formazione neoplastica, ma che la vulgata popolare tende in genere a parafrasarlo con l’espressione “il brutto male”; Parliamo di malattie, tutte le malattie, dal raffreddore appunto al tumore/cancro/brutto male come vogliamo denominarlo, non però da un punto di vista nosografico, ma sulle credenze che la medicina tradizionale continua a propinarci da cui deriva quel sottotitolo del presente saggio  “non esiste” cui fa seguito il contrappunto “ma insiste”, per focalizzare il  perchè la malattia continua imperterrita a terrorizzarci specie con le sue manifestazioni più estreme, apice il tumore.
Le parole, nomi, aggettivi anche i verbi, si sa, possono sempre avere un significato ambiguo, spesso e volentieri antitetico, e anche questo “in-sistere” può essere inteso sia come qualcosa che ha una valenza  specifica di essere e promanare da dentro di noi, non da fuori, ma anche come ripetizione, insistenza appunto, che come vedremo informa un meccanismo altro della nostra ragione, o meglio della nostra entità biologica integrata.  Ecco quindi che, fatto un salto di qualche migliaia d’anni, anche oggi, il Thumos o tumore ovvero  “il brutto male” è anche lui una cosa che non esiste, perchè il principio base è quello che nulla di quanto c’è all’esterno, cioè che sta fuori di noi, non  può veramente nuocerci se non siamo noi che glielo
consentiamo, ecco ci può capitare, ma solo una volta avuto tale permesso... solo allora... si!!!!  possiamo dire  che “in-siste”...e spesso e volentieri... fino alla morte! Fu Kant a ratificare che “la cosa in sè” è inconoscibile in quanto “esterno da noi” ; l’essenza delle cose è incommensurabile al pensiero umano, anche se  bisogna convenire che fu proprio Kant a porre come correttivo l’antico termine, usato da Platone, di “noumeno” ovvero quella sorta di idea della ragione che è proprio quello che il pensiero umano cerca di rappresentare di  cio’ che va oltre la sua comprensione. Detta un pò alla buona la cosa in sè sarebbe il Reale, mentre il noumeno, grosso modo l’Immaginario; però se a tale dualità, ci aggiungiamo un terzo meccanismo, direbbe lo psicanalista Lacan “un terzo registro”, ovvero quello del Simbolico, non potremmo pervenire ad una sintesi, una sorta di dialettica, laddove la “cosa in sè” siamo noi?  o perlomeno quella parte di noi  di cui abbiamo sopra fatto cenno e che abbiamo, per ora,  definito “altra” si configuri come preminente?  Un qualcosa che giustappunto “non esiste, ma insiste!
.Ebbene le stessa cosa è sostanzialmente la malattia  che così come è rappresentata ha sempre a che fare con qualcosa di esterno che ci capita così per caso, per nostre cattive abitudini, alimentari, di vizio, di abitudine oppure per sfiga biologica o genetica ed ha una pseudo conferma in procedimenti statistici. Cosa succede però se ci disponiamo ad accogliere quel distinguo appena accennato:  cosa succede se la cosa in sè, invece di cercarla all’esterno, la ricerchiamo all’interno di noi ? non il noumeno, come idea di ragione della coscienza, ma qualcosa di “altro” che pure fa parte di noi e che abbiamo denominato inconscio?  Questo si che potrebbe essere un capovolgimento radicale di qualsiasi riferimento, quello cui anche Kant faceva menzione in merito alle sue categorie, ovvero una “rivoluzione copernicana”, ma che non disponendo della nozione di inconscio, non poteva rappresentarsi e rappresentare:  quello che cambia è appunto l’indice referenziale che non sta più fuori di noi, ma dentro, appunto non ex-siste, ma in-siste. Al contrario di Kant, qui  però di categorie ce n’è in gioco una sola, o meglio due:  quella della coscienza e quella dell’inconscio, ed è appunto questa doppia strada l’unica percorribile dalla nostra entità biologica di corpo e pensiero:  ovvero ammettere che noi siamo fatti di una coscienza, che appunto valuta, misura, più che altro si serve di un linguaggio per nominare tutte le cose e così facendo le cataloga secondo dei principi di condensazione logica, ma siamo anche fatti di un inconscio, che non nomina, ma accenna, non condensa alcun significato connesso alle cose del mondo esterno, ma piuttosto trascina i significanti, ovvero non le sole parole, bensi tutto il vissuto, tutto il sentito di una e anche di più vite.Nella prima accezione non è possibile addivenire ad una netta separazione con la cosa esterna,  perchè tutto  fin dal primo apparire della vita e vieppiù con l’inizio della vita animale nella specifica umana, e’ relativo al di fuori di noi ed è questo referente che costituisce il termine di paragone e rassomiglianza con cui costruire nuovi termini e quindi nuovi significati, ma e’ diverso se invece  prendiamo in esame la seconda accezione, allora
non è più tanto l’esterno che costituisce il paradigma, quanto l’interno, ovvero tutto il proprio vissuto e anche quello precedente, la somma delle esperienze così come sono state incamerate  e che un individuo, ma anche un gruppo, hanno assimilato nel corso della loro evoluzione e sono in grado di trasmettere sia a sè stessi, che ai propri simili, che ai successori.  C’è da dire che se “il fuori da se”, il mondo, l’ambiente, le sue cose,  sono fortemente condizionanti del tipo di adattamento e di evoluzione cui l’entità biologica doveva far fronte per mantenere la sua “presenza” il suo essere in vita, l’interno di sè” delinea una differente modalità di funzione adattiva, ovvero è in grado di trascinare alcuni non più significati, ma significanti, non spiegazioni, ma prescrizioni, che non abbisognano di similitudini e paragoni bensì di ammaestramenti, un qualcosa che per un lungo periodo è di stretto supporto all’evoluzione, ma poi, come avremo modo in seguito di  dimostrare, se ne distacca. Per la prima si parla  di condensazione non a caso, in quanto è proprio  il meccanismo  del linguaggio che appuntandosi su tutto quello che costituisce il suo ambiente, nomina cosa per cosa e nominando fa paragoni, similitudini, fino a costituire tutta una serie di analoghi  che gli consentono di muoversi con sempre maggiore padronanza in un mondo, una terra che per la verità non lo conosce, lo ignora ed è  del tutto indifferente alla sua presenza. Nominando il mondo, le cose del mondo, condensando significati attraverso paragoni, per i quali possiamo adottare la denominazione che la linguistica fa di tale funzione ovvero la parola greca “μεταφορά,= metafora”” dal verbo “phero” che significa portare e il prefisso “meta’” che significa “con, insieme”,   l’uomo conosce sempre “più mondo “  Per la seconda però non possiamo utlizzare lo stesso parametro, perchè ciò che viene da  dentro di sè e non da fuori, non condensa significati, ma trasmette significanti ovvero non è una metafora, ma è una μετωνυμία = metonimia, ovvero un termine composto sempre dal prefisso  metà, qui più nel senso di  "attraverso/oltre" e ” = "onoma” = nome" ed è precisamente quel meccanismo che dà
 indicazioni sul da farsi, su come far fronte alle necessità, ai bisogni che un mondo non certo accogliente poneva costantemente di fronte, ovvero una funzione, meno circostanziata, meno sintomatica, ma parimenti importantissima, eminentemente simbolica (nel senso proprio del termine: che ri-mette insieme comportamento e ambiente) dove la somma di tutte le situazioni, tutte le esperienze si vanno a codificare in un qualcosa di analogale si, ma con caratteristiche di ammaestramento, un linguaggio anch’esso, ma profondamente diverso e con elementi di ineluttabilità, laddove l’analogia non è incentrata su acquisizioni di nuovi termini, messi in relazione dalla metafora, quel “ cosa è questo? bhe!...è come…” che opera per meccanismi di paragone e rassomiglianza, ma per prescrizioni di carattere comportamentale che è necessario che siano il più possibile categoriche: un linguaggio e quindi una  voce si, ma una
voce un pò particolare, un “sentito dire”  non scandito da parole del linguaggio articolato, ma piuttosto trasmesso da  norme , ammaestramenti, ovvero una voce con carattere allucinatorio, non portata da apparati fonetici, ma evocata mentalmente da una diversa  formazione neuronale del cervello  che si assume il compito di sostituirsi  a quella ordinaria quando sono in gioco fattori di sopravvivenza, con caratteri di immediatezza dell’individuo e del gruppo. Una  componente allucinatoria che e’ resa necessaria dal carattere prescrittivo  del messaggio, che non può limitarsi al fatto di essere “ab-udito=udito”, ma deve essere “ubbidito” cioè  “ob-audito :  ovvero non  un nuovo termine che arricchisca il linguaggio articolato, ma  un suggerimento, una prescrizione, una norma che non può essere elusa, una sorta di imperativo categorico, che non abbisogna di spiegazione, ma di esecuzione, pronta esecuzione:  “vai a costruire quell’argine!” “porta arco e frecce quando ti indentri nella foresta!” “lascia delle tracce nel tuo cammino!”, un qualcosa che solo una voce allucinatoria, che promana però dal profondo della tua mente, può importi. Possiamo ragionevolmente sostenere che se l’uomo con la metafora conosce più mondo, con la metonimia ci si muove meglio.


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